sabato 19 dicembre 2009

“Presentimenti” letti da T. Kemeny il giorno 17.XII.2009, alla Casa della Poesia di Milano, in occasione dell’evento Kaleidoscope in cui il grande pianista Antonio Ballista ha eseguito musiche di Rameau, Poulenc, Satie, Rossini e altri alternandosi alle letture poetiche di Milo De Angelis, Tomaso Kemeny, Vivian Lamarque, Giancarlo Majorino, Roberto Mussapi e Antonio Riccardi.

Presentimenti in dodici frammenti e un’ouverture
per Antonio Ballista


Ouverture
L’uomo contemporaneo
non ritrova l’albero della vita
e in esilio non toglie
il velo dal volto della morte.

Incendiando l’immaginazione dell’uomo
la donna cattura
la colomba nascosta
nel bosco dell’amore

Inseguendosi
l’uomo e la donna
scoprono parole
vive nel cristallo del ghiaccio
e seminano nel vento
l’esultanza dell’acqua
per giungere alle stelle.


1.
La mano del pianista
il silenzio trascolora

Il colore
nello specchio
in ogni sillaba
infranto,
s’appanna

La mano del pianista
tende all’infinito

ma oltre la nostalgia
dell’immagine sonora
assoluta
non approda

2.
anche in tempi di carestia
meteore della bellezza impossibile
scuotono la chioma

la nuda solitudine
è radiosa
tra leonesse
pietrificate
senza pudore

3. In silenzio le Muse
giocano alla mosca cieca
oltre le nubi di fuoco

Ma sono le Sirene
a incantare il marinaio
inavvertitamente fuori dal mondo
sulla nave bianca della Luna
dal desiderio scarnita
e a un filo della memoria

oltre le cortine del giorno
appesa

4.
Se la terra è chiusa
al meraviglioso
il pianista
con una mano ora solleva
le saracinesche
al di là della cortina
di tenebra

L’altra mano
si scatena immersa
nella criniera di leoni
nonstop.

5.
A nulla serve
ribellarsi :


i suoni cadono
come mosche
sui Venerdì Santi
o come sciabolate
sulle orecchie

quando non è
Antonio Ballista
al piano

6.
Nello sguardo delle Pleiadi
tra i succulenti frutti della vita
e i sudari della morte
si leggono presentimenti
d’infinito
se in un frammento
di poesia
la musica alla musica
si riannoda


6. bis
Frammento di poesia
sei senza fondamento
se subito alla musica
non ti riannodi.

7.

Sul pentagramma
del cielo di Milano

tra le nuvole
prendere la forma
dell’Aeolian arp
di Henry Cowell

scoprire poi
tracce del Ballabile
di Emmanuel Chabrier

tra i duri sogni
delle case di pietra
frammento interminato,
hai sapore di tempesta…
….
8.
Qui nei “presentimenti”
il nome inciso
s’invigorisce
fino al midollo-ritmico.


9.
Oltre le bambagie del sincopato,
il pianista
indossa una maschera
di nuvole bianche
e sogna germi del futuro
in musica
rendendo demoniaco
il nucleo del tempo post-umano


10.
“Dopo di noi non c’è nulla…
nemmeno il nulla,
che già sarebbe qualcosa”.
Quest’idea frulla
scema come una rosa invisibile
nella mente
del Conte di Kevenhuller;
per lui si evoca l’ancheggio
di un’ancella cresciuta
nell’orgia e nella deboscia
che con sale e pepe scroscia
nel vicolo allegro
il tempo scandito da timpani,
glockenspiel, xilofono,
tam tam, grancasse, campanacci
intervallati da piatti,
nacchere, fruste, martelli,
due arpe, archi e celesta
ma prima che la visione sia spenta
esigo un sorbetto alla menta.

11.
Tenero, negletto universo
dei timbrici impasti-
sorride
sotto le dita dionisiache del pianista
nello stupore di percezioni
virginee, e paradossalmente
cristalline.

Tenero, paradossale universo
degli impasti timbrici-
a infinita distanza
spazio/temporale
dalle ore, giorni e anni
prosasticamente
sbranati dai cani.

12.
Non il caos
ma la mostruosità
dell’informe
si arrende
a un raggio di bellezza
ora che il ritmo
segna i limiti
di un cosmo
sulla mappa
di questa notte
indimenticabile.

martedì 8 dicembre 2009

Roberto Rusconi: "Exur 17!"

Video art - Earth and Water 1

http://www.youtube.com/watch?v=Ek3BRbA9iSU

LA MASCHERA E IL RITUALE: TOMASO KEMENY

In RECITATIVI ROSSO PORPORA [1], la raccolta poetica che Tomaso Kemeny ha pubblicato nel 1989, una nota avverte che le "poesie […] raccolte (1965-1987) hanno in comune il fatto di derivare da "immagini auditive", da voci mentali, spesso dialogiche, di cui sono il libero sviluppo. Ma già in QUALITÀ DI TEMPO [2] uscito nel 1981, una nota raccontava un sogno dal quale sembra scaturire l'opera:

"Sognai di morire. Salii i cieli e giunsi in un castello di luce. Nascosto dietro un arazzo della sala centrale, intravidi un trono vuoto e vicino ad esso Mozart, Einstein, Beethoven, Rossini. Tra i presenti notai Ugo Foscolo che pareva discutere animatamente con un lattaio vestito di nero e senza volto. La mia collocazione definitiva fu in cucina. Pelavo patate".

Nel sogno l'io del sognatore intravede Adriano Spatola e riconosce anche altri poeti contemporanei. Sembra dunque trattenersi o essere trattenuto in cucina nella modesta veste di aiuto cuoco finché un giorno - continua a raccontare il sogno - non passò in cucina Foscolo e quando lo vide lo "obbligò a seguirlo in uno spiazzo di acciaio e cristallo illuminato da una sfera incandescente: cson voce imperiosa mi impose di comporre due serie di poesie. I testi dovevano essere quattordici in tutto" [3].

Proprio il sogno sembra mettere in evidenza che il bisogno di opporsi al "tradimento quotidiano" con i mezzi trasgressivi dell'avanguardia non deve significare adattamento a una modesta occupazione come il gesto di pelare patate. Il fatto di spostarsi dalla cucina alla sala d'acciaio e cristallo accompagnato da Foscolo sembrerebbe indicare che la ribellione dell'avanguardia deve trasformarsi nella missione del poeta civile. E il morire dell'inizio del sogno segna una nuova fase della vita in cui è necessario cambiare completamente atteggiamento rispetto a quello precedente.

Ma anche i saggi di critica letteraria, L'ARTE DI NON MORIRE [4], sono preceduti da un'introduzione in forma di favola: vi si racconta l'incontro col gemello immortale cui il gemello mortale deve lasciare spazio: "Il gemello, ombra mortale, libera il campo affinché quello immortale possa entra in questa…". Il racconto si interrompe e Kemeny aggiunge che la parola mancante dovrebbe essere "vita". Il primo saggio della raccolta è intitolato significativamente NELL'AURORA DEL DORMIVEGLIA e si fa riferimento a una memoria subliminare, quella appunto del dormiveglia, che lascia affiorare versi e ricordi.

In LA TRANSILVANIA LIBERATA, l'opera più recente che Tomaso Kemeny dedica alla sua patria magiara, il sottoltitolo, annunciando che si tratta di un poema "epiconirico", una "favola onirica" [5], sottolinea di nuovo tale natura e ripropone una modalità di composizione e di ispirazione che appartiene anche alle opere precedenti dell'autore. Tutta l'opera di Kemeny, anche quella del critico letterario, è dunque percorsa da un bisogno improrogabile di dar spazio al sogno, alla fiaba mitologica, ai sogni ad occhi aperti per entrare in contatto con una dimensione, quella del sogno e dell'inconscio, la sola che permetta di combattere proprio quel "tradimento quotidiano" di fronte al quale i mezzi dell'avanguardia appaiono al poeta troppo limitati.

In RECITATIVI ROSSO PORPORA, nell'unica poesia, a parere di Fulvio Papi [6], che enunci una dimensione di poetica nell'opera dell'autore, si chiarisce con un simbolo che riguarda il tempo quale sia il tradimento: si tratta di un orologio a cucù, un oggetto troppo grosso e ridicolo per essere portato nel taschino e che sostituisce il più borghese e conforme orologio a catena: "toglietelo dal taschino l'orologio a cucù / del tradimento quotidiano".

Secondo Papi l'orologio a cucù starebbe a indicare che il "tradimento quotidiano" è consumato "con una puerile e grossolana estetizzazione, con un gioco sciocco che dona belletti alla durezza delle cose […]. Il tradimento lo si respira nell'aria, distribuisce identità e compiacenze in uno sfiguramento del dono della vita. L'io proprietario, dice ancora lo studioso, è anche colui che detiene tempo, memoria, tradizione, enunciazione, significati: per il quale il mondo è ordinato in una definitiva deprivazione" [7]. C'è dunque il rifiuto d'un'identità borghese ordinata e scandita dal tempo dell'orologio a cucù, o dell'orologio a catena, e insieme la percezione dei limiti dell'atteggiamento a questo puramente antagonista, di un antiborghesismo di rottura e di critica, di un semplice rifiuto dell'inaccettabile realtà esterna, come se fosse l'unica dimensione dell'esistente.

Nel saggio citato prima, analizzando i versi finali di L'UNION LIBRE di Andrè Breton, Kemeny scrive:

"Il procedimento surreale manifesta l'incantesimo convulso della "meravigliosa metamorfosi" che celebra l'impossibilità di una sintesi configurante. I "semi figurativi", selezionati da campi semantici lontanissimi, si esaltano in una serie di contenuti irriducibili a una semantica che non sia immaginaria" [8].

Con Breton si sottolinea dunque la possibilità di trasformazione e di metamorfosi raggiunta grazie alla forza delle immagini interiori e alle capacità dell'immaginazione e più avanti, facendo riferimento a Dylan Thomas, si ribadisce che non solo è impossibile la conciliazione degli opposti ma che "l'irriducibile rischio del loro contrasto permanente" dà vita a immagini originarie, unica voce in cui risuonano mondi molteplici. Proprio questi due esempi rivelano come non basti opporre all'unilateralità della visione borghese la visione contraria, all'ordine il disordine, al conformismo l'anticonformismo. C'è invece una necessità di andare oltre che sembra legarsi strettamente in Kemeny, come vedremo subito, alle proprie vicende biografiche e a spingerlo a porre in primo piano la ricerca di una più vasta identità in cui, come emerge con sempre più chiarezza, il canto della bellezza appare legato al recupero delle proprie origini. Kemeny è nato in Ungheria ed è arrivato in Italia a sette anni, bambino profugo che ha già alle spalle la morte del proprio padre naturale e la fuga precipitosa del padre adottivo.

Giuseppe Conte [9] ha messo l'accento sulle diverse vesti in cui Tomaso Kemeny appare: l'intellettuale, il poeta italiano pronto alla bizzarria e al paradosso, ma anche l'ungherese discendente degli antichi nomadi che dopo aver razziato l'Asia sino all'Europa si fermarono come popolo stanziale in Transilvania. Ma Conte ha anche indicato il nucleo conflittuale della biografia del poeta: ancora ragazzino, negli anni della Seconda guerra mondiale, Tomaso Kemeny arrivò in Italia a causa della grande tragedia dell'Est europeo; dopo essere entrato in Transilvania come liberatore, il padre era morto sul Fronte russo combattendo per l'Asse. Il padre adottivo, invece, socialdemocratico e pacifista, e durante la guerra prigioniero in un campo di concentramento, "con una presa di posizione coerente e coraggiosa", come sottolinea Conte, aveva rifiutato il posto che gli era stato offerto dal governo insediatosi dopo l'arrivo dell'Armata russa: "Così l'uomo che aveva conosciuto il campo di concentramento delle autorità ungheresi filofasciste, rischiò di conoscere quelli delle nuove autorità comuniste. Ma, avvertito in tempo, il Venerdì Santo del 1947 fuggì precipitosamente in Italia, aggregandosi come finto massaggiatore alla squadra di calcio. Il ragazzino Tomaso, di sette anni, si ritrovò in un campo profughi vicino a Napoli, cominciò a giocare con gli scugnizzi, vide il suo primo film italiano, TOTÒ AL GIRO D'ITALIA, si innamorò della nostra lingua".

La dura esperienza dell'infanzia lo aveva portato al confronto con due padri che avevano aderito a due ideologie diverse e opposte, i quali tragicamente e paradossalmente erano stati stati messi in pericolo di vita da opposte ideologie. La necessità di denunciare il "tradimento quotidiano" ha dunque soprattutto a che fare con un'avversione profondissima nei confronti di un'ideologia "esterna" cui ubbidire, su cui fondare la propria identià come atto di fede verso una dimensione non scaturita dall'io. Di qui un gioco di mascheramenti, smascheramenti, e travestimenti, non solo la figura di Don Giovanni e quella di Attila, del seduttore e del guerriero, ma di tante altre maschere. Come sottolinea Isabella Vicentini, c'è sempre in Kemeny un aspetto che va oltre tutti i mascheramenti [10]: lo vede infatti come esperto dei ferri del mestiere, come strano e autonomo sperimentatore affine all'avanguardia, oppure come "scardinatore ilare e festoso, barocco e surreale; virtuoso, brutalizzatore della sintassi, sbeffeggiatore energico e passionale, dissacratore fiabesco, biblico ed erotico; burlesco ed enigmatico costruttore di altezze messe alla berlina, di frantumazioni e silenzi, assenze e sospensioni, forme distorte e ricostruite, paradossi, ellissi, ferite e suture". Nonostante Kemeny sia "avveduto e smaliziato", conclude la studiosa, Kemeny "ha saputo non nascondersi dietro i suoi abili ferri del mestiere ma, con quella spoliazione necessaria al poeta, mostrare un'anima stupefatta".

La ricerca come fonte di vita della parte più profonda di sé, della camera d'acciaio e di cristallo, è insieme tensione verso il centro in cui poter sempre "rincasare" e in cui le ferite vengono non solo curate ma guarite come emerge da PICCOLO SALTERIO MITOMODERNISTA IN 7 TEMPI del Natale 2002:

"Sono pervenuto in una reverie senza fine:
le porte si sono chiuse come ferite completamente guarite,
le finestre non si ricordavano d'essersi spalancate
se non nel mio cervello per adorare la natura
e il letto è divenuto una pianura selvaggia
e lo sgabello serviva da trono
per il deretano del clandestino
inebriato di assoluto
e io servo Titania la regina delle Fate
e muto la mia solitudine
nell'orgia spirituale
più intensa dai tempi di S. Teresa D'Avila".

Proprio questo punto d'arrivo mostra come il poeta sia riuscito a realizzare quella premessa che aveva affidato a una citazione di Giuseppe Pontiggia: "occupare il centro, muovere tutti i pezzi a questo fine, sapendo sempre che l'altro è più importante".

Che cosa sia l'Altro è detto con perentoria autorità direttamente dalla musa in PAROLE DELLA MUSA:

"La velocità cancella i contorni
e il teschio e la rosa
segnano sulla retina la smorfia
a divorare il pensiero in schegge
e l'inferno s'invigorisce
e il coro degli angeli balbetta
strofe insensate. La marea delle ore in gabbia sfida
in vortici sempre più intensi
i disegni della natura
e il futuro si smarrisce in incubi virtuali.
Tu hai un unico dovere,
quello di sempre, non lo scordare:
porta le parole a sprigionare
il canto della terra
che ruota in un sogno di bellezza immortale".

L'approdo in anni recenti al Mitomodernismo è adesione a un'arte non annientata dalla distruzione cui il pericoloso quotidiano ha sottoposto la natura tentando di sottometterla e di sfregiarla privandola della bellezza, tentando di eliminarne ogni traccia di sacralità. Oggi che la sfida sembra questa, Kemeny la raccoglie con un nuovo travestimento e con una nuova più profonda identità, quella dello sciamano intento a compiere un irrinunciabile e non più rimandabile rituale propiziatorio.


[1] T. Kemeny, RECITATIVI ROSSO PORPORA, Udine, Campanotto.
[2] T. Kemeny, QUALITÀ DI TEMPO, Parma, Guanda, 1981. IL LIBRO DELL'ANGELO, Parma, Guanda, 1991.
[3] Ibidem, p. 81.
[4] T. Kemeny, L'ARTE DI NON MORIRE. INTERVENTI DI POETICA E SAGGI DI ANGLISTICA, Udine, Campanotto, 2000.
[5] T. Kemeny, LA TRANSILVANIA LIBERATA. POEMA EPICONIRICO, Milano, Effigie, 2005.
[6] F. Papi, LA RIPETIZIONE CREATIVA, in "I Quaderni del battello ebbro", 14-15-16 giugno 1995, p. 57.
[7] Ibidem, p. 58.
[8] T. Kemeny, L'ARTE DI NON MORIRE, cit., p. 16.
[9] G. Conte, "Il Giornale", 19-6-2005.
[10] I. Vicentini, AL CENTRO DELLA LUCE, in "I Quaderni del battello ebbro", cit.

[Rossana Dedola]

DIALOGO libri intervista a Tomaso Kemeny

Tomaso Kemeny:
poeta italiano di Budapest
Milano, 31 marzo 2001 ore 11



Con un’espressione un po’ sperduta poiché s’era dimenticato del nostro appuntamento, Tomaso mi fa sedere togliendo libri e qualche briciola della colazione, sul divano del salotto

Ho letto un suo studio sul poeta lord Byron che inizia con la orgogliosa frase di Orazio a conclusione delle Odi "Non omnis moriar"; cosa non morirà Tomaso dei suoi lavori, come poeta, dei suoi studi, come ricercatore e docente universitario a Pavia di lingua e letteratura inglese?

Tomaso Kemeny (nato a Budapest nel 1939 e trasferitosi a Milano nel 1948, dopo esser sfuggito con la famiglia al colpo di stato russo contro i socialisti che aveva costretto all’espatrio il suo secondo padre, un pacifista, e dopo la permanenza in un campo di profughi presso Bagnoli) risponde ridendo: "Io spererei che rimanessero anche le poesie che ho scritto da ragazzo (compongo da quando avevo dodici anni… anche se il mio primo libro "Il guanto del sicario", uscito in due lingue fu pubblicato per volontà di un amico di New York nel 1976… Ho abitato alcuni anni a Chicago ma poi preferii l’Italia e la sua cultura). Mi piacerebbe restasse proprio la prima poesia in memoria di mio padre caduto in Russia. Cominciava così: "Morì combattendo…" Ma non ho dedicato cure a ricostruire il tutto.. spero che lo faccia qualcuno quando io non ci sarò. Sono disordinato, scrivo di continuo e non penso mai a ciò che rimane ma a ciò che desidero che sia. E butto via molto. Non sono un piccolo risparmiatore di sperma, come dice un mio caro amico; io non risparmio nemmeno l’alito. La mia poesia è molto vicina alla vita, sarà difficile che sopravviva quando io non ci sarò.

Io penso sempre a quello che farò domani e mi dimentico dell’ieri.

Ma dato che siamo mortali, spero che ci sia un mondo che abbia un minimo d’interesse per una poesia vitale come la mia."

La sua poesia è carica anche di sensualità.

Ma perché allora "La rima non scalda" come recita il titolo della plaquette per Dialogolibri? Per lord Byron lo scrivere poesie era un ripiego alla passione patriottica.

"Per me la poesia significa moltissimo; senza di essa la vita non avrebbe un confine e una profondità. Non ritengo la poesia un artigianato per quanto ne possieda un aspetto: si devono conoscere le regole delle composizioni; però penso sia anche una sorta di magia in cui le parole che sono del tutto insensate e servono per ingannare il prossimo finalmente assumono un aspetto di verità. Mentre penso che il mondo politico e il mondo economico come tutto il mondo umano siano basati sulla retorica dell’aver ragione a tutti i costi, la poesia riconosce che l’uomo ha sempre torto davanti alla bellezza assoluta e quindi alla verità.

Byron ha un io titanico che si misura col mondo romanticamente . Io, che sono una piccolissima goccia di questo mare, non sento questa forza in me, ma nella tradizione poetica.

Sono così forse l’ultimo pazzo che crede nella magia della parola che trasmuta l’insensato vuoto della vita . Che differenza c’è tra bugia e poesia? La menzogna è una maschera con la quale diciamo ciò che vorremmo, la poesia non dice ciò che vorrebbe ma ciò che s’intuisce come vero.Oggi tutti dicono che la verità non esiste, che tutto è relativo. Così poco alla volta decostruiscono l’Io divenendo i rappresentanti di commercio del proprio interesse: fingono che l’Io non ci sia per far degli affari. Invece l’Io c’è , ma se si toglie l’aspetto estetico rimane un io pratico. La poesia è inutile nel senso migliore del termine; non serve ad agire ma ad essere. E’ dunque un fatto metafisico, e nel disperato silenzio di oggi la parola è ancora più importante della passione. Prometeo che strappò il fuoco agli dei ha strappato loro anche la parola che è il dono più grande."

Un silenzio rumoroso quello di oggi…In questo periodo di confusione nel quale le Muse spaventate si ritraggono, la parola vera del poeta ha un futuro?

"Contrariamente a Marinetti che della velocità ha fatto un mito, io vorrei inventare il ‘rallentometro’. Questa originalità a tutti i costi del moderno, andrebbe sostituita invece da un ritorno alla origini. Tutti corrono e non hanno nulla da dire..il poeta ha troppo da dire e soffoca…deve rallentare per limare…oggi la poesia è fondamentale come la pittura che ‘blocca’ tutto…Il nuovo Mito deve essere costituito dalla poesia come Parola Rallentata. La misura assoluta non è la velocità ma l’Eternità che non ha inizio né fine. Poiché a noi l’eternità è preclusa almeno permettiamoci di esser lenti. Creiamo una scuola di Lentezza. La società oggi vuole cancellare gli opposti: giovane/vecchio e veloce/lento comicamente diventano giovane/veloce. Togliere il gioco degli opposti ci fa essere degli automi mal riusciti.

La poesia deve anche insegnare l’inconciliabilità degli opposti e l’anticonformismo. Presso gli artisti americani nasce ora il mito del Post-Umano: si vuole essere solo brutti anzi orrendi. E’ una ribellione al mito della velocità questo preferir esser dei mostri.

Io invece vorrei ritornar alle meraviglie di Venere, alla sua bellezza."

Nella sua poesia mi sembra si avverta il contrasto a proposito di bellezza muliebre tra la donna in senso neo-classico come ispiratrice e la donna nella sua sensualità.

"Sì è un mistero. La traccia della divinità dell’universo è nella bellezza: c’è nella mente umana il desiderio del cosmo, cioè di un’unità. Invece nel nostro modo di vivere c’è l’opposto: frammentazione, molteplicità di linguaggi, di atteggiamenti, di maschere…io ho l’illusione che in ogni errore di stampa ci sia il mistero della seduzione femminile .. ma per non impazzire -dice ridendo- è bene anche avere un piccolo rapporto erotico...per disinnescare l’esplosivo… Quando Petrarca scriveva ‘…morte parea bella nel suo bel viso…più che neve bianca…’ riferendosi a Laura, intuisce che c’è qualcosa di sublime nella bellezza femminile. Che poi ci sia davvero è secondario, ma la morte che è la cosa più brutta si rovescia e diventa bella nel volto di lei. Nella mia miserabile poesia invece il sacro è proprio nel corpo non nell’idea, perché nel corpo della donna è l’idea, forse l’unica che non marcisce. Chi non è donna percepisce questa idea come fuori da sé e per quanto un uomo possa amare una donna non la possiederà mai perché c’è sempre qualcosa in lei che va al di là’ e ciò è poesia e va tradotto e detto allora col ritmo. La bellezza femminile è il sogno dell’unità del cosmo, per un uomo."

L’unità del cosmo dunque non è in Dio né in nessun dio dei miti.

"Il Cristianesimo e il Buddismo elevano molto lo spirito ma per me il corpo della donna è il tempio e la donna è l’incarnazione, è il dio. Spero naturalmente anche che la donna abbia bisogno di un uomo –sorride- anche se ciò non è più poesia. Ho sempre pensato che i poeti hanno inventato dio, che Mosè fosse un poeta.

Così per Mozart e Beethoven e in Dante al di là della componente religiosa si sente una potenza sacra.

Il protestante Byron aveva detto che l’amore poiché finisce è sempre una cacciata dall’Eden. Per me invece l’Eden è ovunque nasca il miracolo di una reciproca visione dell’unità, quando due esseri anche dello stesso sesso si sentono complementari, ciò è sacro.

Così i sensi non sono che le finestre sull’universo e il sacro non ha nulla a che spartire con la velocità".

La sua poesia è anche epica.

Sì ho scritto un poema epico "La Transilvania liberata" che uscirà a settembre.

L’epica nacque in me come esigenza organica quando persi mia madre che mi amava molto anche se litigavamo tanto, unico contatto con le mie origini. Lei mi cantava queste musiche della Transilvania ungherese (tolta, essa che ne era il cuore, all’Ungheria nel 1920) dove ella era nata e dove nacquero il grande poeta Endre e pure Bela Bartok, musicista.

Quando scomparve ho sentito io il dovere di cantarle -Tomaso si commuove - se pur in una lingua d’acquisto. A livello quasi sciamanico poiché nell’epica bisogna spossessarsi dell’io, ho allora scritto questi 12 canti non in modo libresco ma ascoltando i miei ricordi.

Sto traducendoli ora in ungherese ma…il problema è che non sono cattolico… e l’Ungheria deve molto al Papa! In essi l’Ungheria è vista come L’Agnus Dei, crocifissa, è un Cristo, ma c’è anche il dio Sole: la mia è terra pagana con tradizioni antecedenti l’anno mille anche orientali. Son state cancellate ma io le sento nel sangue, anche se a livello di rapporto sociale condivido ovviamente il cristianesimo.Tuttavia la bellezza è pagana . Il bello è ovunque nelle cose mentre per la tradizione ebraico-cristiana in esse vi è solo una traccia della bellezza del Dio inarrivabile.

Persino in Dante si sente questo contrasto tra teologia e arte. Ecco perché per Platone i poeti mentono e vanno cacciati: vedono il bello nelle cose mentre è solo nel mondo delle idee. Al contrario di Sofocle. La poesia è un’arte terrificante in contrasto sia con la filosofia che con la religione.

Ecco io vorrei per tornare all’inizio, che restasse di me questa capacità di non rimandare a domani l’utopia e il sogno ma di scorgerli nella realtà che anzi sono vero sogno e utopia. Bisogna saper sognare a occhi aperti che è una posizione estetizzante ma non astratta nemmeno dal bere un bicchier di vino."

I poeti sono folli come il suo adorato e citato Tasso

" C’è una follia che è ovviamente malattia. I poeti in realtà sono i medici della cultura. La follia è nella storia, nei politici. La follia dei poeti è l’immaginazione che è l’unica forma di saggezza rimasta. Ed è verità che va oltre i sensi e l’intelletto. I poeti son stravaganti nei dettagli pratici perché metton tutte le energie nell’occhio mentale che è quello che vede la verità"

L’intervista è finita : Tomaso con la sua voce simile a un’acqua sotterranea sussurrante mi ricorda con stupore e orgoglio che durante il conferimento di un premio a Parigi fu chiamato "poeta italiano".
Ci salutiamo mentre sua moglie,una donna dolcissima, che è tornata dalla spesa si scusa per il disordine.

Anna M. Simm

lunedì 7 dicembre 2009

Casa della Poesia, Palazzina Liberty, Largo Marinai d'Italia 1, Milano - ingresso libero

martedì 15 dicembre 2009 ore 21
Ezra Pound : un grande poeta europeo
a cura di Tomaso Kemeny



Si offre una rilettura dell’opera del poeta che nei suoi versi custodisce “il sublime nel senso antico”, giustamente definito da T.S.Eliot come “il miglior fabbro del parlar materno”, essendo E.P., come il trovatore Arnaldo Daniello, da Dante cantato nel Canto XXVI del Purgatorio, reinventore del linguaggio poetico attraverso procedure prosodico-orchestranti che sintetizzano il verso greco e latino, fondato sulla quantità, con quello inglese sillabico e basato sull’accento e la rima. Padre fondatore del modernismo non solo europeo, riconosciuto maestro da scrittori come Ernest Hemingway, poeti come W.B. Yeats , Williams Carlos Williams e Charles Olson, ispiratore, a volte occulto delle neo-avanguardie e di molte forme di espressione poetica anche extra-verbale e voco-visuale, Pound mirò a fondere, problematicamente, il mito (orizzontale) del nostos omerico con il ritorno (verticale) dantesco allo”…amor che muove il sole e le altre stelle”. Il tragico fallimento della sua impresa conferisce un’intensità profetica alle crisi di possibili civiltà post-umane. James Joyce lo definì “wonderworker”, “produttore di prodigi” perché nei suoi Cantos liberò l’epica dalle strutture narrative, sostituendole con immagini ristrutturabili in ideogrammi o costellazioni semantiche. Il poema è attraversato da leitmotiv come “The temple is holy/because it is not for sale” (“Il tempio è sacro/ perchè non è in vendita”) di grande potenza formativa e da tracce di un’energia spirituale incomparabile.

La lettura di passi scelti dai Cantos verrà accompagnata dall’arpa di Federica Sainaghi.

domenica 29 novembre 2009

Crateri di luce - 28 novembre 2009

Intervento, il 28 novembre del 2009, a Milano, al Simposio “La poesia, il sacro, il sublime”.

Tomaso Kemeny Crateri di luce


The temple is holy
because it is not for sale
Ezra Pound, Canto XCVII




Sostengo che la scrittura del sublime non sia traducibile, essendo custodita nella stesura linguistica originale. Come si evince dallo Pseudo-Longino: “Il pathos e il sublime del linguaggio per la loro lucentezza prevalgono sempre sulle figure, ne adombrano l’artificio, badano a tenerle celate”(1). Di fatti il sublime, inteso come effetto esaltante della pratica poetico-artistica e del confronto con le forze della natura e con le figure ineffabili della trascendenza mitico-religiosa, non può venire felicemente ridotto a oggetto di conoscenza rigorosa, può invece essere tenuto in massimo conto nell’elaborazione di uno o più modelli esistenziali atti a mutare la nostra vita individuale o a definire tipologie soggettive tendenti verso il sublime.
“Mea parvitas”, è venuto il momento per delineare alcune pratiche compositive che, inverandosi in configurazioni, orientano verso il sublime. Ma si può dire da dove viene il sublime? Forse nella nostra cultura nasce dalle configurazioni analogico-naturali dell’Eterno.
Si veda, per es., nell’Antico Testamento (2) quando Dio si manifesta al profeta Elia come “un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce…ma il Signore non era nel vento”; come “un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto”, come “un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco…”. Qui le configurazioni si articolano evocando per difetto il lampeggiare del Divino nel mondo. Così il sublime creaturale si manifesta come sentimento del proprio annullamento inesorabile e dolce. Di fatti, dopo l’epifania del fuoco, Elia intende “un mormorio di un vento leggero…ed ecco sentì una voce che gli diceva ?Che fai qui Elia?”(3).
La scrittura nel Testo Sacro si manifesta nella terrificante forza di una parola il cui contenuto iconico si azzera secondo l’interdetto elaborato dall’antica cultura religiosa ebraica, parola che rinvia all’inaccessibile significato dell’Essere, e trova il proprio limite esplicito nell’ineffabile diversità assoluta di Dio. Il fenomeno straordinario dell’oltrepassamento del sensibile viene invece nominato da Longino quando osserva che “agli slanci dell’osservazione e del pensiero umano l’universo intiero è insufficiente, perché anzi la nostra mente spesso eccede i limiti del creato”. (4)
Nei sistemi artistici del classicismo e dell’arte medioevale, il sublime si manifesta come vetta più alta dello stile. Qui le configurazioni riproduttive elevano gli stereotipi iconici della coscienza epocale oltre i limiti raffigurabili dall’immaginazione. Nei testi codificati come poetici, la pratica riproduttiva si intensifica per qualificazioni per eccesso e per difetto del percepibile. Il sublime così si manifesta come momento più intenso della bellezza oggettiva.
Nei Trionfi Petrarca nella sezione Trionfo della Morte raffigura il pallore mortale di Laura (estinta dalla peste) come un candore dell’incarnato eccedente il raffigurabile: “Pallida no, ma più che neve bianca”(v.166). La differenza tra il pallore immaginabile e quello ideale conferisce alla amata defunta una assoluta singolarità. Questa qualificazione per eccesso viene, nel v. 169, bilanciata da una qualificazione per difetto: “Quasi un dolce dormir ne’ suo’ belli occhi.” L’elevazione culmina nell’ultimo verso della sezione citata: “Morte bella parea nel suo nel viso”, dove la morte, qualificata come bella, risulta come travolgente metamorfosi se collegata ai vv. 31 – 34 della stessa sezione in cui la Morte allegoricamente personificata viene rappresentata come “…una donna involta in veste negra/ con un furor qual io non so se mai/al tempo dei giganti fusse a Flegra…” dove Flegra si riferisce alla località della Tessaglia dove Zeus combatté con i giganti. Il furore desolante e smisurato della Morte in “Morte bella nel suo bel viso”, svanisce come minaccia alla bellezza tesa verso l’eternità, nel viso di Laura. Il chiasmo “Morte bella…bel viso” (Ab…ba) incornicia il verso, come per riscattare l’amata dagli orrori della fenomenologia della morte effettuale.
I poeti e artisti romantici inaugurano la pratica delle configurazioni trasfiguranti, ove il sublime appare in un dettato radicalmente tragico per le molteplici scissioni che impone. Per sottolineare la difficoltà da affrontare nel conseguire l’effetto desiderato, i romantici evocano il “momento disforico dell’impedimento”. Vediamo come P. B. Shelley (5) dopo un passaggio “disforico” evochi una trionfale euforia: “The winged words in which my soul would pierce/Into the height of Love’s rare Universe,/Are the chains of lead around its flight of fire…/” (“Le parole alate in cui l’anima mia soleva elevarsi/nelle altezze dell’Universo raro dell’Amore/sono catene di piombo intorno al suo volo di fuoco…”). Di fatti dopo un primo tempo di passaggio “disforico” da “parole alate” alla metafora di secondo grado “catene di piombo”, le due trasfigurazioni del termine “parola”, dalla grazia inventiva allo svanire delle tracce dell’ispirazione creatrice nelle definitive figure verbali, producono l’ostacolo necessario per un secondo tempo in cui la metafora “flight of fire” (“volo di fuoco”) enuncia con “euforia” vertiginosa l’anima del poeta ammutolita nelle fiamme della passione che l’ha mossa. La significata scissione della materia verbale, viene contraddetta da configurazioni sonore per assonanza in “height/ fire” e per rima interlineare in posizione asimmetrica in “height/flight”. E così il materiale nelle configurazioni trasfiguranti porta la mente oltre i limiti dell’Universo visibile, là dove regna la musica, incontrastata.
Il pensiero-sentimento del sublime viene sinteticamente espresso da uno dei maggiori poeti della modernità, Ugo Foscolo: “E la fantasia del mortale…vola oltre le dighe dell’oceano, oltre le fiamme del sole; edifica regioni celesti, e vi colloca l’uomo e gli dice Tu passeggerai sovra le stelle e così lo illude, e gli fa obliare che la vita fugge affannosa, e che le tenebre eterne della morte gli si addensano intorno; e lo illude sempre con l’armonia e l’incantesimo della parola”.(6)
Chiudo, per non sottrarmi al confronto, con una mia composizione, dal titolo significativo, Alla parola:

La parola sorse
da crateri di luce
e creò un mondo sradicato
dal proprio principio, fino
alla fine dei tempi irripetibile.
Ma tu ascolta
solo la parola che scaturisce
dalle fenditure del tempo
e trapela dai circuiti del silenzio
nel medesimo fremito celando
carne e polvere.

………………………….
NOTE

1. Pseudo-Longino, Il Sublime, 17.3 (a cura di G. Lombardo, postfazione di H. Bloom), Palermo, Aesthetica editrice, 1987, p. 48.
2. Cf. 1 Re, 19, 11 – 12
3. ibid., 19,13
4. Pseudo-Longino, cit., 35.3, p. 60
5. P. B. Shelley, Epipsychidion, vv. 588 – 590
6. U. Foscolo, Opere, Tomo III, a cura di F. Gavazzeni, Milano, Classici Ricciardi-Mondadori. 1996, p. 1288.

Da La parola innamorata. I poeti nuovi 1976 -1978 (a cura di Giancarlo Pontiggia e Enzo Di Mauro, Milano, Feltrinelli, 1978) :

La curva dell’avvoltoio
è cruda sulla mappa della notte:
l’energia si assapora nell’andarivieni
tra bagliori;
senza rabbrividire
gli occhi non vengono percorsi
dalle frontiere gelatinose delle ulcere
e dei morsi;
conosci l’arte
di morire nel retto di una rosa?



Non sempre il sangue ha colore feroce
quando l’ago entra nella cicatrice
cancellando la pioggia
e lo squarcio nel mare in marcia.
Nel petto slacciato sugli occhi alla
terminazione delle
stelle, l’incisione divora le rughe.
All’incrociarsi delle ossa sulla
superficie in fuga si
sgroviglia di pietra e di pula nel
vuoto sotto la penultima riga.

lunedì 23 novembre 2009




Centro Suolo, via G. B. Morgagni 35, Milano, inaugurato il 1° febbraio 1969

Il Centro “per la ricerca e la diffusione della poesia avanzata” visse tre anni per volontà di Ugo Carrega, Tomaso Kemeny, Raffaele Perrotta, Antonio Agriesti, Alfonso Galasso, Giustino Gasbarri e Michele Marangoni. Tra le altre azioni vi è stato organizzato un “Omaggio a Ezra Pound”(30 ottobre - 10 novembre 1969) in ricorrenza dell’84mo compleanno (esposizione opere, con la collaborazione di Vanni Scheiwiller, iconografie, audizione Cantos letti da E.P., proiezione di documentari). In un momento in cui occuparsi di poesia veniva percepito come attività patetica, simile alla raccolta di cartoline obsolete, il Centro, in sintonia con centri similari a Brescia (Centro “la comune”), Firenze (Centro “téchne”), Roma (Centro “uscita”), New York (“Place for something else”), Parigi (“agentzia”), si sforzò a diffondere una cultura “nuova, anzi antica” in prospettiva della poesia. Si ricorda una serie di 6 slogan:
a noi interessa che qui al nostro centro si parli e che si possa parlare liberamente di poesia;
a noi interessa stimolare l’interesse verso la poesia;
a noi interessa che i problemi della realtà vengano fuori dalla poesia;
a noi interessa stimolare alla lettura, alla visione, alla audizione, alla creazione di poesia;
a noi interessa allargare l’idea stessa di poesia;
a noi interessa fare sapere che la poesia non è morta.

Qui si pensava che l’editoria autogestita (clandestina) fosse l’unica forma di circolazione libera ed autentica. Ugo Carrega da tempo gestiva le edizioni tool, edizioni per la diffusione della poesia simbiotica, visuale e avanzata; mentre dal febbraio del 1969 si ebbero le edizioni periplo per iniziativa di Raffale Perrotta. Qui il 1° maggio del 1970 si dedicò una serata alla Fame nel Mondo; nell’occasione i magnifici 7 del Centro Suolo si sedettero a una tavola pantagruelescamente imbandita, e divorarono 20 portate succulente, innaffiate con vini selezionati, lasciando a digiuno e a gola secca il pubblico convenuto per significare l’ipocrisia criminale celata dietro istituzioni tardo colonialiste. La delicata provocazione fu dedicata a 20 tipi di ipocriti “agli ipocriti fatali, agli ipocriti da torchio, agli ipocriti babbei, agli ipocriti indefessi, agli ipocriti bolscevichi, agli ipocriti borghesi, agli ipocriti papisti e riformati, agli ipocriti da rebus, agli ipocriti epatici, agli ipocriti da panico, agli ipocriti padronali, agli ipocriti talmudici, agli ipocriti eroici, agli ipocriti aulici, agli ipocriti esemplari, agli ipocriti predestinati, agli ipocriti da Conclave, agli ipocriti volgari, agli ipocriti predoni, nonché agli ipocriti da Festival dei Popoli”.


Da Suspense extensive o intensive (il periplo, Milano, 1969):

“Il mare davanti a me, perché dirlo?
La spuma passa sui ciottoli che germogliano
nel vento. So che ostento
l’aria di chi viene da lontano
o che torna dove nessuno lo ricorda.
Non ho un dialetto da spartire con te, amico,
solo questa bottiglia di birra e allora dico che questo mare
-il vapore dell’alba lo inzucchera-
è la pianura col vento che fischia nei comignoli
negati dal beccheggio di quella nave,
ma le onde riflettono
la chimera d’oro nei campi di grano.
Ho paura di morire come questo ratto schiacciato
da un autotreno, come questo uccello
senza nome che cercava la primavera,
perché solo la velocità sembra che conti,
la mia lingua,
la mia origine, tutto ciò non ha un significato.
-C’è rimasto così tanto da amare,
il fuoco scoppietta e fascia il profumo dei pini nevosi.
Col dizionario internazionale in tasca, dico
in tutte queste lingue indoeuropee
i ciottoli e le conchiglie,
vicine tempeste di neve mi coprono la fronte.
Su una roccia boccheggia un pesce,
nella mia testa urta contro le strette
pareti dell’acquario,
le scaglie del mare mi abbagliano dietro gli
occhiali da sole,
da mille anni boccheggia e non riesce a morire.”



Quando (composto alla morte di André Breton, il 28, IX, 1966, edizioni tool, Milano, 1970):
Versi scritti alla morte di André Breton

…scavando nel marmo
alcune sillabe e i loro faz
zoletti d’oltretomba per latrare
che è tutto finito ma siccome
mento ne vedremo ancora delle belle
indosso il tuo segreto sbocciato
nell’eden senza divieti della scrit
PAROLE INCAUTE REGISTRATE NEL VERBALE
tura automatica (si distenebra
il tuo nome in decomposizione
nel vortice delle continue meta
morfosi) ti si attorciglia al collo
come cravatta funebre
maldestro
pirata
e tu sventoli ancora il seme
surreale in tutti i suoi arco
baleni
principe paria rovina
to a rate
le radici delle tue
vene s’inargentano nella favola
inarrestabile delle generazioni
rincasano dalla polvere le tuemani bionde nella carezza della
magia totale
…………………………………………………………………………………………….

nelle foglie sicure da ogni fischio nessuno vuole più essere (diventare) un Autore
si pubblica per cercare nella scintilla l’uomo e la donna che si incontrino nell’eden
gli occhi incendiati dall’estate
nella nostra bocca il mistero si caria
ricopro il mio corpo di erba e di spinaci
e dal pus si leva il geranio che corroderà le bandiere
colorate
alzandole nel nero
del rischio inutile
(l’uso delle parentesi permetterà forse di mitigare lo slancio fiducioso verso le affermazioni più euforiche)
io sono il vegetale delirante che addita l’Abitudine come il figlio degenere della Responsabilità
mai abbastanza crocifissa nella fraction collective du langage

ogni atto
costerà più caro della vita
ogni attimo
ha come posta l’esistenza intera

……………………………………………………………………………………………

e avere come radice la voglia di cambiare la nostra vita da oggi stesso
cambiare questa pallina di moccio
e non volere cambiare ORA
significa essere nella cerchia delle burocrazie necrofile

“Chi cancellerà le caricature perverse dei rivoluzionari bestiali?”

(produttori di poesie su scatole di fiammiferi e su conserve di pelati
sorbiranno i nostri cervelli con cannucce
e noi in cambio nasconderemo le nostre vecchie abitudini criminali)
quasi meglio essere dei
vermissaux rampants sur la terre
(dei Swedenborgh
dei William Blake)

L’ALDIQUA esige il rito dell’esplosione totale:
il nostro corpo è il nostro castello

……………………………………………………………………………………………

unica misura la terra che ci contiene
sulle palme pesanti croci di mosch
ee e fumosi vichinghi là l’Oceano è p
uro come la mano di André come farò a
dimenticare il suono della sua voce co
me farò a parlargli quando vorrò (?) le
domande sono giuochi di spade che tag
liano la gola all’eroe/antieroe che v
orrebbe uscire dalla conchiglia per e
ntrare nella storia sui tavolini dei bar
battono i denti i bicchieri di rum ra
bbrividisce l’oppio antico nei piatti s
i fa luce e dallo specchio scendono g
iovani senza denaro vorranno da me la
mia bocca la mia voce perché io dica
per tutti che è finita la macabra sto
ria degli usurpati dell’eden mi dico
no che è venuta la loro ora di cherubi
ni il fuoco fiorisce tra le mie dita
il gelo chiama nelle mie vene la grande
estate amorosa ronzano sotto la sfera
di cristallo delle biblioteche i moto
ri allegri delle primavere

……………………………………………………………………………………………

Il foglio (secco come un indù) bianco
è la finestra aperta sulla rugiada
della mia immaginazione:
le parole ‘dentro’ muoiono
e vivo nelle cose.
Il mio pensiero


è Acqua


è la corrente trasparente del silenzio,
la mandorla spianata che si sprigiona
dal suo involucro naturale e
si traspone in forme simultanee
per volatilizzarsi nella concretezza.

……………………………………………………………………………………………

la turgidezza del sesso occidentale decresce in una fontana di sperma grafico
non basta una fontana in ristampa per annoverarsi fra i grandi seduttori della storia
corrono le piccole formiche a versare il proprio sangue nella vasca comune
i pesci rifiutano di flirtare con le cloache
gli uccelli negano il proprio volo alle pattumiere sfondate
i cappelli a visiera affondati sulla fronte
gli ultimi proletari comprano bigliettini da visita
per impostare il proprio saluto ai supermarket


con un braccio liberai la scrivania dai libri. mi stesi nudo sul patibolo. il boia era in vacanza e così potei aspettare che la rugiada deponesse la sua tovaglia di campanule e di api sulla pianura. un serpente solare affondò la coda nelle acque inquiete

……………………………………………………………………………………………

quando avrà un nome l’arresto del vortice
prodigioso
quando avrà sangue il mare d’argento
quando la morte saprà chi ha portato via nelle
sue ceste incestuose
allora nudo come un albero correrò nel vento
per sapere dove porta la via inesistente
per rispondere alla sfinge il nonsenso dell’esistenza
per tacere ai piccoli confessori di miserie
il mio contegno di erede di fallimenti
(ho scagliato nella forra la mia corona di ferro
e prigioniero di un orizzonte infernale
so che la mia vita è la più breve)
quando il colore dei tuoi occhi sarà il nulla
quando le grandi speranze saranno imbalsamate come i cammelli
quando il rumore dei tuoi passi
romperà l’esilio dell’uccello di fuoco
quando sulle strade il tuo nome sarà la vittoria
allora potrò venire anch’io con la mia
vanità di ripetente
l’aldiqua sarà una rosa disserrata a festa
e non ci sarà bisogno di ricordi per sentirci eterni
la conchiglia misteriosa da sempre cercata
avrà per lo sguardo indiscreto dell’uomo
la sua perla in metamorfosi perpetua
quando le parole avranno un’eco nei cuori
quando la neve sarà un bosco in fiore
quando
quando gli occhi delle ragazze
porteranno in vasi di porcellana i loro fragili
fianchi
quando i bambini mentiranno per uccidere dio
quando i ciechi sentiranno cantare il buio
quando la proprietà privata sarà un’orrida leggenda
quando il marchese Sade verrà a piantare
la sua bandiera sulle prigioni
quando Aragon avrà tinto di nero la sua bandiera
rossa
quando Bunuel filmerà il s. padre crocifisso
al banco della simonia celeste
quando Max Ernst dipingerà per tutti le sue
visioni dettati dall’estasi
quando Eluard avrà finalmente ragione
quando Tzara non dovrà più mendicare aggressioni
quando Tanguy Peret Crevel Char Jacques V. Picabia
e gli altri ragazzi
firmeranno il manifesto della rivoluzione indolore
quando la canaglia che fa professione rivoluzionaria saprà salutare la bellezza
facendo predominare il principio del piacere sul principio della realtà
quando non ci sarà più bisogno di rimpiangere André










giovedì 19 novembre 2009

Il Libro dell’Angelo (Milano, Guanda, Fenice Contemporanea, 1991)

Dalla presentazione di Giuseppe Conte (in quarta di copertina): “Il Libro dell’Angelo di Tomaso Kemeny non è soltanto una raccolta di poesie, ma un vero e proprio poema sognato per frammenti in instancabile movimento, tutto implosioni e vortici…Dove l’epifania dell’Angelo è la Donna, il Corpo d’Amore, leggiamo i versi più sorprendenti, versi in cui i fianchi femminili si presentano ora come ‘culla’, ora come ‘tomba’, e Kemeny pare filtrare attraverso Breton l’ossessione amorosa di Petrarca e di Tasso. Kemeny, lo studioso di Coleridge e di Dylan Thomas, il poeta dolcemente clownesco del Guanto del sicario, quell’Angelo l’ha incontrato davvero. Ne è venuto fuori un libro nuovo e ‘ispirato’, dove si compenetrano modernità e tradizione, grazia e sublime, linguaggio e anima.”

mercoledì 18 novembre 2009

Caino, un canovaccio in Teatro 1 a cura di Eugenio Miccini ( in“quaderni” di Techne – n.5, Firenze, marzo 1970).

Il mito della “Morte di Dio” ispirò a T. Kemeny il “canovaccio”; vergato nel dicembre del 1968 fu portato in scena nelle province nell’inverno-primavera del 1969 dal gruppo il Periplo. La pièce coinvolse attivamente gli attori-personaggi (Abele - A. Agriesti, il Regista - A. Galasso, Caino - T. Kemeny, l’Eterno – Dio -R. Perrotta, il Maestro Concertatore del Pubblico - G. Gasbarri, il Pubblico - i presenti in sala) e il Pubblico. Ogni rappresentazione fu unica-irripetibile. Invarianti solo lo slogan declamato dal Regista “Contro il logorio della settimana corta, bevete acqua fresca” e l’accoltellamento dell’Eterno da parte di Caino.

lunedì 16 novembre 2009


Don Giovanni innamorato (Es, Biblioteca dell’eros, Milano, 2003)


Giuseppe Conte da "Un Don Giovanni ‘Porno’ e lirico", il Giornale, 13 aprile 2003:

“Credo che possa venire salutata come un vero e proprio caso letterario la pubblicazione del primo romanzo di Tomaso Kemeny. Sinora l’autore si era applicato con risultati di prim’ordine alla poesia, alla traduzione e alla critica letteraria come grande anglista, docente all’Università di Pavia. Il Kemeny poeta ha attraversato diverse fasi procedendo coerentemente da presupposti legati al Surrealismo verso esiti di rilevante presa lirica, metaforica e visionaria, mettendo via via a fuoco una sua poetica del Sublime e della Bellezza, e dando un contributo generoso alla nascita del movimento Mitomodernista. In questo romanzo il linguaggio è crudo, e sfiora quello del genere porno. Il lettore si prepari a un cibo molto piccante, a un cocktail molto alcolico: c’è una vera orgia di termini gergali della sfera sessuale. A mio parere è stata una scelta coraggiosa e franca. Ne viene sottolineata la dirompente forza comica, ma non so come non parodistica. Don Giovanni, come forse l’autore, e come forse qualcuno di noi, è convinto che la lussuria sia il più bel dono di Dio. Alla fine però il registro cambia. Attraverso il regno oscuro della carne separata dallo spirito, del coito separato dall’amore, Don Giovanni scopre il potere sublimante dell’innamoramento. Dopo essere stato il Don Giovanni gaudente e falstaffiano, capace di ogni astuta laidezza, diventa il Don Giovanni innamorato del titolo. Nelle pagine del suo diario anche il registro stilistico cambia: e vi troviamo tracce di un lirismo sublime. La metamorfosi finale di Don Giovanni è una sorpresa che non voglio svelare, connessa con l’enigma del rapporto tra arte, il sesso e il grande amore. Io ho riso a crepapelle leggendo le prime cento pagine di questo libro. Poi ho avuto un soprassalto: il finale getta una luce nuova su tutto. E si capisce che Tomaso Kemeny, l’aristocratico trasnsilvano, il poeta, il mitomodernista ci ha messo di fronte a una allegoria che, parlandoci di eros, ci parla del più profondo, angoscioso e felice mistero della nostra esistenza.
Da La rima non scalda (Dialogo libri, Como, 2000)

“ Mi accende?”

“Sono un legionario inattuale
dell’immaginazione creatrice.”
“Mi accende?” rispose la sconosciuta
-labbra tumide celebrarono baci
a varcare la soglia dell’incanto.
Fianchi da amatrice reclamarono
un letto imperiale. Sotto la maglia
estiva il respiro innalzò
il prodigio di seni donativi.
“Per te nulla esiste oltre il seno?”
Chiese, poi, fatale bloccandomi il respiro.
“no, non esiste”, risposi e accesi
la sigaretta a chi in quella notte
lontana m’incenerì il cuore.
Da Se il mondo non finisce (1980 – 2003) (I quaderni del circolo degli artisti, Faenza 2002, con illustrazioni di Loredana Cerveglieri):

“Ninna-nanna del porco mondo
la mia vita t’appartiene
e si trasforma di colpo
in un incubo a cinque stelle…
Ma chi cavalcherà la tempesta
alla testa dei giovani, dei vecchi, dei decrepiti?
Chi disgregherà lo smercio dei ritmi
spenti? Chi ruggirà
la gioia di vivere?
Chi suggerà la luce
dalle poppe stellate
della notte sconfinata?”


La Parola

La parola sorse
da crateri di luce
e creò un mondo sradicato
dal proprio principio, fino
alla fine dei tempi irripetibile.
Ma tu ascolta
solo la parola che scaturisce
dalle fenditure del tempo
e trapela dai circuiti del silenzio
nel medesimo fremito celando
carne e polvere.
….

Urlando Sodoma

Nota biografica: “Mi pare di ricordare che mi sono sempre affidato a un poemetto o a un poema, sospendendo le mie abituali composizioni liriche, ogni volta che un lutto o un evento doloroso o straordinario mi ha privato del mio ritmo espressivo “naturale”. Il primo poemetto fu 28 settembre 1966, scritto in occasione della morte di André Breton, che ebbi occasione di conoscere, testo che si conclude significativamente con i versi “…quando coloro che fanno professione rivoluzionaria/ sapranno salutare la bellezza”. Il secondo poemetto, da cui si citerà immediatamente, fu composto quando un’amica incinta soffrì un trauma cranico seguito da aborto dopo la sua partecipazione a una dimostrazione non autorizzata a Milano (una sinfonia per manganello e botte da orbi).”

Da Urlando Sodoma (E. R. Sampietro editore, underground per una editoria contro capitalistica, Bologna 1971):

“…ma quando l’alba fagocitò
il tempio l’ostetrica trovò il cantaro intarsiato
grondante di sangue oh rugiada del suo grembo
raschiato da mille megere…”
Da Suspense extensive o intensive (Milano, Il periplo, 1969)

“………
-C’è rimasto così tanto da amare,
il fuoco scoppietta e fascia il profumo dei pini innevati.
Col dizionario internazionale in tasca, dico
in tutte queste lingue indoeuropee
i ciottoli e le conchiglie,
vicine tempeste di neve mi coprono la fronte.
Su una roccia boccheggia un pesce,
nella mia testa urta contro le strette
pareti dell’acquario,
le scaglie del mare mi abbagliano dietro gli
occhiali da sole,
da mille anni boccheggia e non riesce a morire.”
Da Eterna Disarmonia (Signum edizioni d’arte, 101, con sette disegni di Mauro Staccioli, Milano, 2002), Visioni profane sorte durante la contemplazione della restaurata “Maestà” di Simone Martini.

“ a Mademoiselle D.
Su richiesta del Petrarca, Simone Martini
ritrasse Laura ad Avignone nel 1336
(si vedano i Sonetti 77 e 78 del Canzoniere)

Simone, che a ritrarre la Vergine
nella corte celeste incoronata
fosti decisivo e che per carpire
l’immagine di Laura
in Paradiso innalzasti lo stilo,
dipingi le grazie dell’amore mio
nei gorghi della disarmonia
dove l’anima terrena ti spazia”
Da Desparecidos, vidas robadas, vite rubate (Millelire stampa alternativa, Roma, 2002)

“…Non sapeva nulla della vita
né mi vide sulla fronte
la prima stella nera
nata dalla disperazione.
Mi spezzò due dita
e dalla bocca mi germogliarono
fiamme e le mie mani
volarono – colombe rosse
in direzione del sole…”
Da Sei Poesie (Firenze, Chegai ed., 1959)

Per un soldato

“Morì combattendo
nel suo corpo
congelato
caldo
era il piombo nemico.
Un commilitone
gli tolse
l’orologio,
un altro
le scarpe,
lo ricoprì la neve,
la patria
guardava
altrove.”

sabato 14 novembre 2009

Da Recitativi in rosso porpora (Udine, Campanotto, 1989) :

“(silenziosamente antica
irta di bulbi
coperti di squame gotiche)

l’ortodossia è come la polizia / tempo di tango

:se ti mette le mani addosso
passi prima del tramonto
come inno che risuona tra cripte e
ossari

salgo le scale scendo le scale
apro la porta chiudo la porta
entro nella stanza esco dalla stanza

(perché non c’è mostruosità
che io non conosca
come del resto tu sai benissimo
Oscar Kokoschka)

Commento di Stefano Lanuzza (Paese Sera, Mercoledì 7 giugno, 1989):

“Kemeny, studioso tra l’altro di Lewis Carroll, James Joyce e Dylan Thomas si conferma, ormai, come poeta importante, con una poesia che nasce per frammenti e illuminazioni interiori, per voci mentali, spesso dialogiche, di cui le sue liriche paiono libero sviluppo.”
Dall’Almanacco dello Specchio, 12, a cura di Marco Forti, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1986. Due sequenze poetiche “Il nome inciso” e “Ragazza che si stende”:

“Poesia superflua e obsoleta
cancella il nome inciso.
Sfuma la distanza dalla lapide.
Dalla rosa che abbaglia si levano
ali nere nella bruma. Farfalla
si posa nivea sul dorso
invisibile all’obiettivo e allo
stormo stridente sulla spuma.”


“Se ti stendi per perforare i cieli
l’azzurro vede con i tuoi occhi.
Il fuoco sorge tra spine di ghiaccio
quando un prato di piume dilata
il letto senza scampo. Se mi prendi
schegge
di cristallo moltiplicano il lampo.”

Commento di Giuliano Gramigna: “…l’ilarità, dunque, si presenta come un dato da cui partire per le suites che vengono presentate qui. Ma è l’abilità di cambiare le carte in tavola che mi sembra la qualità più autentica di un poeta come Kemeny, arrivato a maturazione; dono non appena del preconscio, ma addirittura dell’inconscio.”
Qualità di tempo (Società di Poesia – Guanda, Milano, 1981):

“L’eternità è un concetto cupo
brutta copia dell’attimo che ancora
ci separa; se il nostro respiro
ostenta il sorgere della prima
luce in pieno giorno,
il tuo corpo senza fondo arresta
le mie mille vite slabbrate che
scorrono in te verso
l’eclisse totale del mondo.”

“Dalla culla tenebrosa sbocca un
oceano di rasoi. Si ribalta
la figurazione scabra che sventra
la galassia. Si squarcia la cornice
consunta che ostenta la notte
odorosa. Nessuno ti ravvisa
nell’amplesso che dissotterra gli astri.”

Commento di Stefano Agosti (in quarta di copertina): “…la violenza dei temi non sarà altro che metafora supplementare e cumulativa della violenza operata nel testo, il quale si esibisce nel complesso e straordinario esperimento che si presenta compattissimo. La violenza che abita la struttura del testo si sposa infatti a una fisiologia del finito e, al limite, del levigato; in una parola a quella che Mallarmé definiva, materialmente, ‘la musica’…”

venerdì 13 novembre 2009

The Hired Killer’s Glove – Il Guanto del Sicario (Out of London Press, New York 1976, testo italiano tradotto dall’autore):

“la mano macella non solo la rima,
acconcia la carta al godimento, se i ricordi
scottano la penna mascherando l’orgasmo
restituito nel gocciolone alla carta sorbente;
arrivano le nuotatrici col disordine organizzato
secondo gli accenti annodati nell’occhio;
il verso sbarrato non riproduce le mammelle
attraverso il risucchio acquisito sul foglio”

Dal saggio di Nanni Cagnone, Il guanto del sicario (Marcatre, Enneesse ed, Roma, 2 agosto, 1976)

“Il meraviglioso è già stato. Si proviene appunto da qui, con totale mancanza di innocenza, andando attraverso sospiri alle inadempienze del senso. Nella poesia di Kemeny, il corpo repertoriale, accademico, scrocca incantesimi alla goffaggine del luogo comune, espone sontuose feste in biblioteca, sprofonda dal sonno nei fatti con finto stupore, si aggira perplesso in luttuosi musei simbolici e cita l’eros offrendogli specchi senza ritegno…Sulla soglia lampeggiante dell’onirico, Kemeny intrattiene un melodramma voluttuoso, grande tenore alle prese con l’insana proverbialità - colpi di tosse e scricchiolii - e l’inesorabile splendore del genere poetico… Kemeny rivela per accanite maschere la perversa semanticità del reale, mentre per la sua riluttante visione dispiega un enorme apparato scenico ma subito in funzione astrattiva, rendendone elusiva la verosomiglianza.”

Da Roberto Carifi “T. Kemeny, lo sguardo nell’abisso” in Il gesto di Callicle, saggio sulla nuova poesia, Milano, Società di Poesia, 1982:

“Per parlare del lavoro poetico di Tomaso Kemeny occorre partire da quella raccolta indimenticabile che è Il guanto del sicario (New York, 1976), un’opera che, oltre a rappresentare un momento decisivo nel panorama della nuova poesia, si presenta fortemente indicativa di temi e contenuti di cui gli ultimi testi di Kemeny costituiscono un coerente sviluppo…Il decentramento dell’Io che abbiamo indicato come un fenomeno generalizzato della nuova poesia, diviene in Kemeny il gesto che assegna ad un fondo senza fondo la matrice abissale di una soggettività esposta alla violenza del precipizio. È qui sui bordi del “non pensiero” che il soggetto del cogito, il soggetto cartesiano, vacilla: si fa “vacante”, avrebbe detto Artaud, vuoto, come il lacaniano non-réalisé, e forse vagante, nomadica erranza ai bordi del Discorso…Il viaggio erotico si manifesta come tragico-gioioso affondare nell’eccesso di una notte dove il naufragio del nome proprio è anche epifania dello straniante, fino allo stordimento…come in Bataille e Artaud la crepa del femminile è il nero che domanda di venire attraversato per approdare al mistero, all’alchimia della notte…e la ricerca dell’Uno-Tutto è anche la consapevolezza che l’Angelo sia metafora di un’impossibile ricongiunzione all’Altro, ma anche la spietata e crudele apologia dello spossessamento, della consunzione delle eterne categorie di soggetto e oggetto e l’eros diviene la follia di una discesa empedoclea nel cratere al femminile…”

T. Kemeny già il 27 maggio del 1982 ha indicato come oggetto ultimo e primo della ricerca “la bellezza”. Si veda “Residui di esperienza: il concetto di bellezza”( in L’Altro Versante, rivista di poetica e di poesia, Rimini, Maggioli Editore, 1982): “È vero che Platone afferma che i poeti sanno di non sapere, cosa che non accade ai filosofi…ma la ricerca in sé e per sé mi pare che possa diventare un alibi per l’inconcludenza, oggi. È ovvio, l’attività di ricerca è implicita a qualsiasi risultato artistico. Ma non si regredisca al gioco infantile della “ricerca per la ricerca”, dove non conta l’oggetto che si insegue, ma si è devoti all’inseguimento istituzionalizzato…Brutalmente, chi ricerca senza “sentire” il fantasma di ciò che gli manca e/o manca al mondo, con maggior profitto potrebbe dedicarsi alle parole incrociate. I “poeti” di qualche valore tendono a lavorare sul Testo che desiderano leggere per intero, ma che nessuno è stato ancora in grado di rendere compiuto. Ciò che è necessario cercare, necessario come l’aria, l’acqua e la terra e il fuoco è “la bellezza”. La tradizione “deviante” delle avanguardie storiche e delle neo-avanguardie, ci lascia un’eredità di tale e evidente e incompiuta bellezza (“tempora mutantur,et nos mutamur in illis”), che non c’è più tempo da perdere…

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giovedì 12 novembre 2009


Melody (Marcos y Marcos, Milano, 1997):


“ ‘Hanno portato puttane ad Eleusi’
canta il miglior fabbro turbato
dalla pestilenza che
disgrega lingua, tempio e focolare.
La donna più bella, svenduta,
nella notte che precipita
cerca il sole.”

Dalla recensione di Giuseppe Conte,”Il magico Kemeny”, il Giornale, 17 luglio, 1997 :
“C’è il canto delle origini in Kemeny, una continua spinta aurorale: la consapevolezza della crisi, del ‘lutto di una civiltà intera’, come quella occidentale, non può cancellare la grazia di una voce di bimba che invoca “la luna troppo bella e sola”. L’archetipo di una bambina astrale e quello della Musa ricorrono frequenti…Un palpito teogonico passa nei suoi versi del tutto laici, intrisi di pagana pietà naturale…Ma come dimenticare Kemeny in divisa da ufficiale napoleonico che invoca le Muse sul sagrato di Santa Croce occupata, il 1° ottobre del 1994? Come dimenticare il suo gesto a un mesto e dignitoso convegno di poeti a Milano, quel suo pugnale sguainato non a ferire qualcuno, ma a strappare il velo della menzogna e della rinuncia? Chi è stato alla sua celebrazione di un rito in onore della primavera sulle rive del Ticino, nel marzo del 1995, mi ha raccontato di averne ricevuto una spinta di energia magica nuova, tale da cambiare un’esistenza…L’uomo non libresco, il mago cantore, il dolcissimo compagno d’armi è anche dotto, uno che traduce da tante lingue: ed ecco nel libro traduzioni dal greco, dal latino, dall’inglese, dal francese, dallo spagnolo, dall’ungherese , come una dichiarazione d’amore e di poetica ecco Tirteo, Ovidio, Marlowe e Byron, Breton e Dylan Thomas, la sua limpida tradizione personale. Kemeny, d’origine ungherese, fa anche atto d’omaggio a Ady Endre, Kosztolànyi, Jozef Attila, Szkàrosi Endre…”

Desirée (Lietocolle libri, Faloppio, 2001, p.14):

“Ventiquattro demoni spadroneggiano
nella casa cremisi dell’amore:
suoniamo la tuba anche spettinati
appassionatamente appaiati
(si gode tanto da venire sfrattati).
A ogni tua mossa…una scossa,
a ogni tuo bacio divento più macho;
in un sottomarino facciamo mattino.
Se fai l’ironica ti prendo
in una cabina telefonica;
se si scatena il temporale
lo facciamo anche nella cattedrale;
ma se la voglia sale
va bene anche il canile municipale.
Ventiquattro demoni spadroneggiano
nella casa cremisi dell’amore:
vieni, attacca l’amo alla lenza,
senza di te
la vita è solamente penitenza.

La Transilvania liberata (Effigie, Milano, 2005)

Dalla recensione di Enzo di Mauro, il Manifesto, 16 luglio 2005:
“I traffici devoti che Kemeny intrattiene col mito e col Sublime, qui si intrecciano con millimetrica precisione alla concreta evocazione di quadri spalmati di cupo realismo e di squarci metropolitani, contrassegnati da una pronuncia civile, da un timbro morale. Tuttavia, coloro i quali ricordano per privilegio d’età i primi anni settanta a Milano e la fluida, passione naturale di animatore culturale e di irresistibile performer che lo vide attivissimo (insieme a Nanni Cagnone) nei locali della galleria d’arte “Il Mercato del Sale” di Ugo Carrega, possono sempre nutrire la loro memoria guardando la contro copertina del libro, dove troveranno Tomaso Kemeny in divisa da ufficiale napoleonico. Dolente e felice, questo poeta appartato e vestito di gloria rammenta con ostinazione e fedeltà come non fu vano, una volta e sempre, il suo giovanile incontro con André Breton. Sul lungomare di Nizza, mi pare, se l’incombente vecchiaia non m’inganna.”
Dal saggio di Cesare Segre La Transilvania liberata dalla poesia (Strumenti critici,
113, Bologna, il Mulino, Anno XXII, Gennaio 2007, Fascicolo 1):

“… il poema muove tra un passato mitico, con le sue divinità, i suoi eroi, i suoi simbolismi e il passato storico, giungendo fino alla storia recente. Individuare una linea espositiva coerente sarebbe impossibile, dato che le grandezze in gioco (mondo dei guerrieri antichi,, mondo dei miti, visioni astrologiche, incarnazioni sovratemporali, scene di attualità, profezie) stanno su piani molto diversi, e l’originalità del poema sta proprio nel continuo slittare tra un piano e l’altro; come nei sogni.”

Le avventure della Bellezza


Le avventure della bellezza 1988 – 2008 (Arcipelago ed. Milano,2009.)

Dalla recensione di Beppe Benvenuto, Corriere della Sera, 11, X, 2009:

Kemeny: Bellezza in cerca di avventure
“Contro il dilagare dell’effimero alla fine degli anni Ottanta un gruppo di artisti, studiosi e letterati, proclama in un manifesto il primato della “bellezza”, attraverso 19 Tesi. La sfida suonava come una provocazione; oggi , invece, molte di quelle idee appaiono quasi scontate e Le avventure della bellezza parla di un combattimento ancora in corso. Gli avversari di sempre non sono usciti di scena, anzi possono contare su importanti solidarietà, essendo figure note. E’ il caso di “procedimenti scandalistici” di Cattelan o il tentativo di screditare “il genio titanico e sublime di Ludwig van Beethoven” da parte di Baricco. Il libro registra, anche grazie a un numero elevato di contributi, un dibattito culturale che, dopo un ventennio, è ancora capace di suscitare polemiche.”

La morte è un'altra cosa


La morte è un’altra cosa (Edizioni ETS, Pisa, 2007, p. 16):


“Senza speranza e senza paura
oltre il gran Nihil il viandante
cammina sulle acque del Bosforo
e vede tutto per folgori
e quando la luce tornerà alla luce sente che
tutto il potere sarà della poesia dell’esistenza finalmente
anche per l’impossibilità innata di venire a patti con la vita…”

martedì 10 novembre 2009

Tomaso Kemeny, poeta in rivolta trentennale contro la Tirannia del Brutto contemporaneo: grido di battaglia cosmopolita “Fight for Beauty!”, “Combatti per la Bellezza!”. Ultima azione poetica a Gorizia, il 7 novembre, nel contesto della Festa della cultura Ex Border ideata da Alberto Princis. Traccia dell’azione le 11 Tesi per rendere alla poesia la città di Gorizia :
1) Rovinarsi per la poesia è un privilegio.
2) Non è vero che nessuno riesca a vivere all’altezza dei propri sogni.
3) Se la filosofia ha l’onore dell’ultima parola, la poesia ha il dovere della prima.
4) La nostra meta porta oltre le origini: la parola poetica può tracciare sentieri ignoti.
5) Il discorso poetico produce verità in prospettiva della bellezza.
6) La forma della poesia non è vestito, ma è corpo.
7) Un’opera bella ci indica come potrebbe essere il mondo, apre le vie all’utopia.
8) La poesia offre una visione globale, contro la frammentazione del mondo globalizzato.
9) La poesia segnala la posizione dell’uomo nel cosmo.
10) Se non cede alle follie della ragione, la poesia riscatta il linguaggio dalle degenerazioni della comunicazione.
11) Con Dio è morto l’individuo, l’essere umano indivisibile, dando via libera ai trasformisti di professione. Chi crede nel mito in poesia, può rinascere come individuo.